DA EDIPO A TELEMACO: FIGLI IN CERCA DI PADRI. Intervista a Massimo Recalcati

27.07.2016 14:36

Nel 2004 il liceo Parini di Milano fu letteralmente devastato da un’occupazione che lo rese inagibile per alcuni mesi. Riconosciuti i responsabili, il preside, insieme al corpo docente, decise di non adottare alcun intervento disciplinare contro i ragazzi responsabili della devastazione. Per iniziare la nostra conversazione le chiedo di commentare, riferito a questo caso particolare, il giudizio di Roberta De Monticelli: “la sostanziale impunità fa male, tanto a chi ne fruisce quanto alla comunità. [Questi ragazzi hanno così ricevuto] una supplementare cura di inconsapevolezza […] [perché sono stati] privati del senso delle conseguenze delle proprie azioni, che è un costituente essenziale della libertà”[1].
La Legge, per come la pensa la psicoanalisi, vale a dire la legge simbolica, che è la legge della castrazione, si manifesta attraverso l’introduzione dell’impossibile. La Legge segnala l’esistenza di una soglia, di un limite che è impossibile valicare, riprendendo per altro una tradizione che sta all’origine dei testi biblici. E tuttavia, a differenza dei testi biblici, questo impossibile non si chiama Eden, ma incesto. Cosa significa? Significa che è impossibile per l’uomo fare esperienza di un godimento illimitato, che è il godimento della cosa materna. Questo godimento senza limiti è interdetto dalla Legge, la cui funzione è precisamente quella di introdurre il senso del limite come elemento costitutivo dell’esperienza umana. Nello stesso tempo, questo impossibile è ciò che paradossalmente apre la possibilità stessa del desiderio.
Per venire al nostro caso, il diritto ad essere puniti è un diritto, senza dubbio. Tuttavia, per uno psicoanalista questa idea rischia sempre di scivolare verso un terreno che è quello del godimento sadico di chi esercita la punizione. Abbiamo avuto tutta una pedagogia autoritaria che il ’68 e il post ’68 ha giustamente decostruito e che non è il caso di recuperare perché si fonda su un’idea autoritaria e padronale della paternità. Per questa ragione, è importante che il bisogno di essere puniti venga sganciato dal fantasma sadico che di solito accompagna l’esercizio della punizione. Anche perché quest’ultimo genera quasi sempre una predisposizione masochista nel soggetto, che non è altro poi che una predisposizione volontaria alla servitù. Il diritto ad essere puniti può invece essere interpretato così: ogni soggetto ha bisogno che questa costitutiva condizione di impossibilità venga evocata. Ogni soggetto deve imparare, insomma, che la dimensione della libertà non è quella dell’assenza di limiti. Gli educatori e il dispositivo discorsivo della scuola devono essere in grado di evocare questa interdizione senza tuttavia richiamare sulla scena il fantasma del padre autoritario. Non è compito facile, anche perché non basta pretendere il rispetto delle regole. Questa zona di impossibilità è qualcosa di molto più radicale e poco ha a che fare con il diritto e la giurisprudenza. Non a caso la psicoanalisi l’associa all’esperienza della castrazione. Ma questo episodio in realtà illumina molto bene un problema storico più generale: la difficoltà degli adulti e delle istituzioni a fare esistere questa zona di impossibilità, che poi è il senso del limite. Lacan sosteneva che il dispositivo istituzionale, qualunque esso sia, ha sostanzialmente una funzione: quella di frenare il godimento. Bene. Nel nostro caso, è evidente che il godimento non è stato sufficientemente frenato. Nessuno si assume la responsabilità delle proprie azioni. Questo è un punto importante: in psicoanalisi l’etica non riguarda le intenzioni, ma le conseguenze del proprio agire. Ed uno dei problemi più gravi del nostro presente è proprio l’estinzione di questa forma di etica delle azioni. Tutti parlano e nessuno è responsabile di quello che dice. Basta pensare al nostro Presidente del consiglio e alle sue continue dichiarazioni, poi regolarmente smentite. Non esiste più etica delle conseguenze.

Da psicoanalista quale consiglio potrebbe dare a quel corpo docente?
Credo che quel corpo docente abbia commesso sostanzialmente due errori. Il primo è quello di non essere stato in grado di evocare il senso del limite, vale a dire l’esistenza di quella zona necessaria di impossibilità che, come è ho detto, è il freno del godimento; il secondo è quello di aver lasciata evasa la questione della responsabilità e di non avere così chiarito il legame che stringe ogni atto alle sue conseguenze. Quello che però è strano è che in questo caso sembra esserci stata una specularità simmetrica fra gli adulti, voglio dire fra insegnanti e genitori. Una sorta di collusione immaginaria destinata a sollevare i figli dalle loro responsabilità.
Va detto che oggi, di solito, accade esattamente il contrario. Questa alleanza fra genitori e professori non viene sostenuta perché i genitori tendono a fare le veci dei figli, frantumando così un elemento che invece andrebbe sempre mantenuto sul corretto asse simbolico: sto parlando della differenza generazionale. È una situazione simile a quanto accade oggi in molte famiglie quando, di fronte ai problemi dei figli, i genitori sostengono posizioni diverse; e di solito uno dei due fa le veci del figlio, rompendo così l’alleanza generazionale che, è bene ripeterlo, è invece un ingrediente decisivo per far crescere i figli.

Proviamo ora a collocare questo episodio circoscritto in una storia di lungo periodo. La scuola pubblica italiana, temo sia difficile negarlo, ha subito in questi ultimi decenni una progressiva perdita di prestigio sociale. Potremmo sostenere che è un’istituzione ormai scarsamente in grado di esercitare il potere di castrazione simbolica che le è proprio. Un sintomo macroscopico di “evaporazione del padre”.  Ma indebolimento dell’autorità e indisciplina sono qualità che non contraddistinguono solo la scuola pubblica, ma la società italiana nel suo complesso. Sono in molti oggi a ritenere causa di questa radicale mutazione sociale i movimenti di contestazione del ’68. Personalmente ritengo invece che l’origine vada semmai cercata nella reazione delle nostre oligarchie politiche ed economiche alla forza d’urto all’anti-autoritarismo del lungo ’68 italiano. Se fosse plausibile questa lettura, l’indisciplina andrebbe letta come strategia di governo – come ben argomenta Giovanni Bottiroli in uno scritto compreso in volume da lei curato[2] – e non come semplice effetto della contestazione. Qual è la sua posizione a riguardo?
Domanda complessa a cui non so se saprò rispendere con sufficiente competenza. Partiamo dal concetto di indisciplina. In Non sorvegliati ed impuniti [3] Bottiroli introduce un’osservazione critica rispetto alla lettura foucaultiana del dispositivo istituzionale. A differenza di quanto crede Foucault, l’istituzione oggi non è più tanto l’agenzia del controllo sociale, quanto il luogo dove si misura la difficoltà a fare esistere quello che l’istituzione dovrebbe incarnare, vale a dire, per usare un’espressione di Lacan, il freno al godimento. Io non credo, come lei giustamente sostiene, che di questo processo il movimento del ’68 sia la causa. Il mio giudizio sull’esperienza di quegli anni resta infatti positivo, a differenza per esempio di Lacan che del ’68 ha dato invece un giudizio riduttivo.
Lacan sostiene che il ‘68 ha radicalmente frainteso significato della Legge e quindi funzione del padre; e da un certo punto di vista può essere anche vero. Tuttavia sono convinto che quel movimento abbia introdotto una necessaria discontinuità rispetto al “discorso del padrone”, a cui per altro la figura del padre era ancora tradizionalmente legata; questa discontinuità, è bene ricordarlo, è stata vissuta come possibilità della presa di parola, come partecipazione attiva delle nuove generazioni alla vita della comunità politica. Ed è precisamente questo lo spazio nuovo che il ’68 ha creato e sarebbe davvero ingiusto dimenticarlo. Senza la forza di quel movimento saremmo molto probabilmente ancora schiacciati dal “discorso del padrone” e dalle sue leggi sadiche. Lacan a questo punto però mi risponderebbe: il ’68 ha preparato il terreno per il “discorso del capitalista” perché la sua decostruzione della mitologia paterna ha aperto la strada a quanto Pasolini, in quegli stessi anni, avrebbe chiamato “il politeismo orizzontale” della società dei consumi.
A questo punto però bisogna intendersi. Il ’68 ha operato una rottura radicale rispetto alla tradizione teologica e borghese del pater familias. Una rottura traumatica, senza dubbio. Ma necessaria. Se letta a posteriori, questa rottura ha però permesso di riconsiderare, con occhi nuovi, temi come la continuità fra le generazioni, l’eredità, la tradizione. Con il ’68 si apre, insomma, la possibilità dell’assunzione soggettiva della propria provenienza. È il soggetto ora che, attraverso un atto di responsabilità e di conoscenza, deve capire che l’esistenza è sempre iscritta in un campo che la eccede, che la trascende. È un insegnamento fondamentale e che per altro aiuta a far maturare una sana avversione verso i falsi miti autogenerativi della soggettività, come il culto iper-moderno dell’indipendenza, dell’autonomia, dell’essere genitori di se stessi, etc… Tutte versioni immaginarie della libertà.
A distanza di anni, invece, è proprio l’esperienza del ‘68 che può aiutarci a riconsiderare l’insieme di questi problemi “paterni” (eredità, tradizione, continuità) cercando nuovi equilibri. Perché se è importante saper riconsiderare il senso della tradizione e della continuità rispetto alla propria provenienza – è il compito dell’esistenza – nello stesso tempo, sono altrettanto importanti la rottura con il familismo, lo strappo, l’elemento discontinuo della differenziazione, che è, in fondo, l’altro insegnamento fondamentale di quegli anni. Perché ci sia soggettivazione non basta semplicemente assumere su di sé il peso dell’eredità; per farla davvero propria è sempre necessario fare, contro di essa, un gesto eccentrico, una mossa di rottura, un passo traumatico di conflittualità discontinua. Con il ‘68 diventa chiaro infatti che il conflitto fra le generazioni è sano se produce differenza.
Per ragioni anagrafiche non ho personalmente partecipato al ’68. Però, qualche anno dopo, sono stato un giovanissimo militante di Lotta Continua. Avevo solo 16 anni quanto si è sciolta, a Rimini, nel 1977. Ho quindi fatto parte del movimento del ’77, ma, con il senno di poi, non posso non fare autocritica rispetto a questa esperienza. Lì abbiamo fallito anzitutto sull’atto dell’ereditare. Il rischio delle congiunture rivoluzionarie, come è stato sicuramente il ’68, e, almeno in parte, il ’77, è il fallimento dell’eredità per eccesso di rivolta. L’eccesso di rivolta accende il rifiuto dell’eredità, non la sua soggettivazione. Un rifiuto della castrazione, in fondo, nel nome di una libertà pretesa senza vincoli sociali e civili. Quello che a posteriori mi stupisce di quell’esperienza è infatti una totale assenza di pensiero istituzionale. L’istituzione, che in realtà è il freno al godimento e rappresenta dunque il veicolo della castrazione simbolica, veniva rigettata in quanto limite della libertà. Ed è, questo, un fraintendimento profondo, un fraintendimento di natura perversa. In questo caso specifico, la perversione sta nell’incapacità di pensare un’alleanza possibile fra legge e desiderio, identificando nella legge il nemico, l’ostacolo alla realizzazione del desiderio, assecondando così una visione che è quella del figlio bloccato dal fantasma edipico. Il movimento del ’77 voleva rompere il sistema o, quanto meno, costituirne un’alternativa. Ma in moltissimi casi quest’esigenza ha assunto toni talmente radicali da arrivare a coincidere con la pulsione di morte. Se pensiamo alle scelte estreme che ha compiuto la mia generazione, dal terrorismo all’eroina fino alle fughe in India, vediamo bene come l’esigenza di introdurre una discontinuità rispetto al sistema, non essendo vissuta in relazione all’assunzione dell’eredità, si sia trasformata senza ragionevolezza in una pura volontà di separazione e di annullamento. Stupisce il fatto che oggi, invece, ci si trovi di fronte al capovolgimento del problema: se per la mia generazione l’angoscia stava nel rischio di essere integrati, il disagio giovanile contemporaneo nasce all’opposto dal non sentirsi sufficientemente integrati nel principio di prestazione in cui, come Marcuse ci ha spiegato, si è ormai trasfigurato il principio di realtà. Non a caso la droga più comune oggi è la cocaina che agisce come una specie di protesi dell’Io, orientata a potenziare il principio di prestazione. Mentre l’eroina, che è stata la droga comune di una parte della mia generazione, è la sostanza che fa interrompere ogni forma di contatto con la realtà, consentendo un’illusoria uscita dal mondo.

Ma lei non crede che nella lettura di questi anni manchi sempre un attore altrettanto importante? Voglio dire, se la ribellione dei figli ha assunto toni così estremi non deriverà anche dal fatto che l’Italia dei padri di quegli anni, per tantissime e complicate ragioni – si pensi anche solo alla continuità istituzionale dello Stato con le strutture del fascismo – aveva una cultura istituzionale incapace di riconoscere il conflitto come normale e sano elemento di differenziazione fra le generazioni?
Non c’è dubbio. La storia di quegli anni andrebbe letta anche attraverso la figura della paternità. Voglio dire, per come questa figura è fallita non solo nell’atto dell’ereditarla, ma soprattutto nell’atto dell’esercitarla. Capovolgendo lo sguardo si può infatti sostenere che le nuove generazioni non sono riuscite ad ereditare e fare proprio il significato profondo di questa figura anche perché il suo esercizio non lo ha consentito. Pensiamo a come la paternità si è declinata a livello istituzionale. Nel regime democristiano la paternità è stata esercitata soprattutto come corruzione, stagnazione, immobilismo. Ripetiamolo: per la psicanalisi la paternità implica un’alleanza fra legge e desiderio. Nel nostro caso, la forma di potere che ci ha governato per mezzo secolo ha generato una Legge non animata dal desiderio. Tant’è che il desiderio è dovuto passare all’atto nel’68 per potersi manifestare. Perché non c’era, di fatto, alcuna trasmissione del desiderio. La Legge viveva schiacciata nella sua dimensione burocratica e coercitiva senza alcun contatto con la dimensione propulsiva, progettuale e visionaria del desiderio; una divaricazione molto grave, non c’è dubbio. Potremmo anche leggere il caso Moro con queste lenti psicanalitiche. In fondo Moro ha provato ad incarnare una figura mite di paternità, cercando, con il compromesso storico, di riattivare un’alleanza fra Legge e desiderio, nella direzione di un possibile, per quanto difficile o improbabile fosse, cambiamento del sistema. Il fatto che questo padre, che si poneva il problema della trasmissione, sia stato ucciso, mostra fino a che punto l’effetto simbolico della trasmissione aveva generato un rifiuto radicale come ritorno diretto nel Reale. Il terrorismo è precisamente questo: il passaggio al Reale. Perché il terrorismo non è solo la rivolta dei figli contro i padri; quest’ultima, infatti, rimane nell’ambito dell’Edipo e della nevrosi, diremmo clinicamente. Il terrorismo introduce una rottura nel Simbolico. Esprime la necessità di un passaggio all’atto portandoci così direttamente nell’ordine della psicosi paranoica.

Se veniamo all’oggi la situazione appare paradossalmente capovolta: viviamo governati da istituzioni deboli o impotenti, incapaci di frenare il Godimento e di attivare la spinta trasformatrice del Desiderio. Questo capovolgimento nasconde però una continuità di fondo perché stiamo subendo l’ennesima divaricazione fra Legge e Desiderio. Di fronte a questo nuovo scenario come dovranno agire, secondo lei, le nuove generazioni per non fallire ancora una volta l’atto dell’ereditare?
Credo che sia arrivato il momento di parlare, soprattutto per la nuova generazione, di un vero e proprio complesso di Telemaco. Edipo è stata la figura che ha messo in rilievo la funzione del padre come rivale, come ostacolo alla possibilità del godimento incestuoso. In questo contesto, il Desiderio poteva essere vissuto come trasgressione. In fondo il ’68, e anche il ’77, possono essere letti attraverso questa lente psicanalitica: da una parte abbiamo l’autoritarismo paterno, dall’altra l’esigenza dei figli di trasgredire la Legge. La condizione d’esistenza del padre Edipico è però il conflitto. E la novità dei nostri anni sembra essere proprio la mancanza di un conflitto simbolicamente strutturato fra le generazioni. Siamo in presenza così di una violenza erratica non più organizzata dall’Edipo. Con Quel che resta del padre ho provato a spiegare perché oggi il conflitto non è più centrale nella costituzione della soggettività. Per tante ragioni. Per esempio perché i genitori sono più angosciati dall’essere amati dai propri figli o dalle loro performances narcisistiche, piuttosto che dall’atto educativo, etc… Se questo è il quadro, è necessario introdurre una figura nuova che per altro spiega qualcosa, credo, del successo politico di figure come Pisapia o de Magistris, dove il voto giovanile è stato decisivo, soprattutto se si pensa che negli ultimi dieci anni, lo stesso voto è stato piuttosto orientato a destra, perché ipnotizzato dal berlusconismo, che è poi il miraggio della trasformazione del mondo attraverso la televisione. In questi ultimi mesi, invece, mi pare che si sia alzato un vento nuovo di cui i giovani sono i protagonisti. Il complesso di Telemaco ha a che fare con questa nuova esigenza di partecipazione politica che è, di fatto, una domanda di paternità. Non certo rivolta a vecchie forme autoritarie, che giustamente il ’68 ha decostruito. I giovani di oggi assomigliano a Telemaco che guarda il mare e che si aspetta che qualcosa dal mare torni. Certo, Telemaco si aspetta che dal mare tornino le vele gloriose della flotta invincibile del padre. Che dal mare, insomma, torni il padre eroe, sovrano, guerriero e carismatico. E invece Ulisse tornerà dal mare irriconoscibile, come un immigrato, un mendicante, un povero. Telemaco, in un primo momento, infatti, non lo riconosce. Ma è anche questa la lezione. Si può riconoscere il padre anche nel sorriso timido di un sindaco. Le nuove generazioni, insomma, sono alla ricerca non tanto di un padre eroico, quanto di un padre testimone. Di un padre cioè capace di mostrare, nella propria esperienza vissuta, la possibilità concreta di tenere saldi Legge e Desiderio.

Questa nuova figura di padre/testimone è al centro della sua lettura dell’ultimo romanzo di Cormac McCarthy: La strada. Cosa l’ha colpita in particolare di questo testo?
Il padre della Strada è un padre che sopravvive. Non è il padre che esercita il potere. Non è il padre che ha l’ultima parola sul senso della vita e della morte, sul bene e sul male, su ciò che è giusto e su ciò che non lo è. Il padre della Strada è un padre che sopravvive contro tutto. Fa una scelta diversa da quella della madre che decide di suicidarsi. E questa dimensione della sopravvivenza è una testimonianza. Per quanto la vita sia sprovvista di senso, bisogna continuare e andare avanti: bisogna desiderare la vita e quindi aprire possibilità. McCarthy descrive una metafora estrema ed agghiacciante del nostro tempo ipermoderno (cannibalismo, stupri, furti, violenze di ogni tipo) che è un tempo governato da un Godimento senza freni. Ma questa è precisamente una metafora di cos’è il tempo senza il padre. Il problema della Strada è quello di come fare esistere un padre in un epoca che si costituisce sulla sua evaporazione. La risposta di McCarthy è che un padre ha anzitutto il compito di sopravvivere. E che la sopravvivenza fa esistere un orizzonte. Importante è ovviamente il rapporto con il figlio. Quello che mi colpisce, come lacaniano, è che qui il punto centrale della dialettica del riconoscimento non è più il Nome, ma l’Atto. McCarthy mette in scena un riconoscimento che prende forme sensibili, materiali. Il padre si prende fisicamente cura del figlio. Una messa in valore delle azioni rispetto a quanto i lacaniani chiamano Nome del Padre, vale a dire la struttura simbolicamente pura della paternità. Nell’epoca in cui il Nome del Padre evapora, perché resti qualcosa del padre, è necessario che ci sia una sua incarnazione. È l’incarnazione che può far esistere di nuovo il valore del Nome. Questo per me è il passaggio centrale. E vale anche per la dimensione politica. Per riabilitare la dimensione simbolica dell’istituzione politica, oggi completamente screditata, c’è bisogno di testimonianza. Di una testimonianza però che arrivi fuori dalle istituzioni, magari da una sorta di terra di nessuno. Testimonianza di come un padre sperduto in un mondo senza Dio sia riuscito a sopravvivere e a non impazzire. Questa testimonianza può essere la condizione attraverso cui rendere di nuovo possibile l’evocazione del Nome del Padre. C’è un altro aspetto di questo romanzo che mi ha profondamente commosso: la cura che quest’uomo ha per suo figlio ha qualcosa a che fare con l’esistenza di Dio. Non stiamo certamente parlando del Dio teologico. Nel romanzo il padre dice: “Finche esiste un bambino, esiste la possibilità di Dio”. In questo caso, non è Dio che discende e si realizza nel mondo, si incarna e diventa bambino. Ma è la sola esistenza di un bambino che può far esistere Dio. Ancora una volta, si può recuperare il Nome del Padre solo attraverso l’atto singolare della testimonianza. E il bambino rappresenta il futuro, l’avvenire, l’andare a sud. Il bambino costringe l’apertura dell’orizzonte. E del resto lo sguardo di Telemaco, diversamente dalla cecità di Edipo, ha a che fare proprio con questa necessità di tornare a guardare l’orizzonte.

McCarthy, come del resto Philip Roth o Eastwood per il cinema, è un autore che potremmo credo, senza problemi, considerare come un “classicista moderno”. Nel Miracolo della forma [4] il suo campo d’indagine è stato la pittura contemporanea. Ma anche nella tradizione figurativa, per esempio nelle opere di Tapies come di Burri, ha cercato di valorizzare un’idea di arte come armonia fra forma e forza, fra tradizione e innovazione. 
Ritengo che l’arte contemporanea abbia imboccato due vie egualmente sintomatiche. Una è quella del porre la forma staccata dalla forza. Una sorta di diuresi analitica della forza in una forma sempre più nebulizzata, astratta e concettuale. Un’arte che alla fine arriva a mostrare un mondo dove non c’è più niente di significativo da vedere. La forza e l’incandescenza della pulsione si è ridotta a niente. L’altra tendenza esprime un’esigenza opposta: forza senza forma. E questa volta abbiamo disgregazione, esplosione del testo, schizofrenia performativa, esibizionismo dell’orrore e così via. Io credo invece, contro queste due derive sintomatiche, che l’arte è potente solo se sa tenere insieme forza e forma. La grande arte, in modi diversissimi, e penso a Burri o Tàpies, ma anche a Cattelan nelle sue operazioni più raffinate, se sa fare questo rende l’opera un evento. Quello che io amo in McCarthy, ma anche negli altri autori che analizzo nel libro, è proprio la capacità di armonizzare forza e forma. Andrebbe sempre ricordato a vari teorici dell’informale, che la forma non è mai un esorcismo della forza, ma un modo di organizzarla per renderla potente.
Uno dei miti su cui lei sta lavorando, e che mostra molto bene l’ambivalenza dell’identità maschile, è il mito dei Centauri.
Un anno fa mi è capitato di vedere al Louvre delle metope – purtroppo non ne ricordo la provenienza – e dei bassorilievi greci raffiguranti un gruppo di Centauri che rapiva donne Lapite. Non mi ero mai interessato alla figura del Centauro, ma, com’è evidente, il suo significato è estremamente pertinente. La mitologia sui Centauri non è estesa, le fonti sono soprattutto romane – Le Metamorfosi di Ovidio, anzitutto, poche le testimonianze greche. I Centauri sono un popolo interamente maschile – pochissime fonti rappresentano anche una “centauressa” – che conosce il rapimento come unica relazione con il sesso femminile. Nella radice latina di rapĕre è compresente il significato di ‘rapimento’ e di ‘stupro’, di atto sessuale forzato, che nell’antichità romana era per altro legato al diritto di guerra. In inglese, invece, abduction descrive letteralmente il rapimento; rape la violenza fisica. Ed è una modalità di relazione con il femminile estrema ed impressionante, l’unica che conoscono i Centauri. Del resto, la loro rappresentazione scissa, metà umana nella parte alta del corpo e metà animale in quella bassa, significa per immagini quello che il mito racconta: un maschile che non riesce a staccarsi dalla sua natura animale, che non riesce a completare la propria umanizzazione. E non a caso è la parte inferiore che è animale, quella legata alla parte riproduttiva. Per altro, mi sembra che il mito anticipi stranamente alcuni attuali fenomeni degenerativi. Penso al gang rape, la violenza di gruppo: i Centauri conoscono solo questo tipo di sessualità e sono, ed è molto interessante, sempre ubriachi, privi di coscienza. E tuttavia sarebbe una semplificazione sostenere che rappresentano una pura regressione animale, perché, in realtà, non esiste in nessuna specie animale questa pratica sessuale di gruppo violenta.
A questo proposito vorrei riprendere il concetto di pseudo-speciazione elaborato da Erik Erikson. L’essere umano è l’unico animale che commette l’assassinio interspecifico in modo regolare; lo praticano anche alcuni tipi di scimmie e di felini, ma solo in casi estremamente eccezionali. L’essere umano, invece, uccide i suoi simili perché non li percepisce più come appartenenti alla sua stessa specie. L’uomo riconosce gli altri esseri umani come simili attraverso la lingua o segni culturali come i vestiti, e non, per esempio, attraverso l’olfatto, come fanno in genere gli animali. Ciò non toglie che nella maggior parte dei casi la riproduzione intraspecifica avvenga comunque; come insegna il mito – Otello e Desdemona, Montecchi e Capuleti –, una volta superata la proibizione, che è sempre esterna e politica, la diversità attrae, perché attraverso ciò che è diverso l’uomo impara, conosce. Tuttavia, quando si parlano lingue troppo diverse, ci si veste in modo troppo diverso, si può percepire l’altro come non appartenente alla propria specie: e questo fa cadere l’inibizione ad uccidere. Questa è la pseudo-speciazione, un fenomeno culturale che rompe l’istinto e che quindi ci fa molto più distruttivi.

Quando viene meno l’aspetto maschile civile, quello del padre, si costruisce una pseudo-speciazione che separa il maschile dal femminile. Nel gang-rape l’uso indifferente di una violenza estrema, gli atti di sadismo che portano talora alla morte della vittima mostrano una modalità di relazione dove il femminile viene percepito come qualcosa di talmente diverso da sé da far cadere l’inibizione ad uccidere, come cade l’inibizione ad uccidere un popolo diverso.

Il più grosso episodio storico di stupri di massa è avvenuto in Germania, nel 1945: alla fine della Seconda Guerra Mondiale fu dato il via libera ai militari sovietici di violentare le donne tedesche. Purtroppo ha ragione Jung quando sostiene che combattere troppo un nemico può far diventare simili al nemico stesso, perché la brutalità con cui i militari sovietici hanno terrorizzato e stuprato le donne tedesche non ha nulla da invidiare alla pratiche naziste. Si consideri inoltre che l’Armata Rossa non dava licenze di alcun tipo: questo significa che la stragrande maggioranza dei militari era costituita da ragazzi che combattevano ininterrottamente da quattro anni di fila, visto che la guerra era cominciata nel giugno ’41. Non è difficile capire come questi giovani fossero ormai abituati ad una tale distanza dal femminile da percepire le donne come qualcosa di assolutamente altro, anche perché appartenenti ad un popolo diverso e nemico. Di nuovo, un caso di pseudo-speciazione. Ed è qualcosa che abbiamo rivisto, per esempio negli stupri etnici in ex-Jugoslavia, ed è un fenomeno ora diffusissimo soprattutto in Africa, nelle zone uscite da devastanti guerre civili come la Liberia, la Sierra Leone o le zone ad est del Congo. Battaglioni costituiti da ragazzi giovanissimi, a cui viene dato un kalashnikov in mano e che si abituano a combattere ed uccidere fin da piccoli, una volta cresciuti, e magari ormai disarmati, danno vita a bande di maschi pronte allo stupro di massa. Sono ragazzi che hanno conosciuto la violenza come unica modalità di relazione con l’altro; in questo caso, con il femminile.
Ma questo accade anche nel nostro ricco Occidente, dalle periferie alle scuole ricche del centro. Si pensi ad un caso di qualche mese fa: una banda di adolescenti ricchi ha isolato una ragazza che è stata poi stuprata a turno da tutti, per ore. La cosa impressionante è che, una volta interrogati, questi giovani non mostrano alcun senso di colpa per quanto commesso. E questo è davvero sconcertante, vista la facilità con cui oggi, in un Occidente laico e consumista, è possibile avere relazioni e rapporti sessuali con chiunque e di qualunque tipo. Il problema è dunque culturale: e può essere visto come la riattivazione, nell’inconscio sociale, del mito dei Centauri. Chiamiamolo, per comodità, centaurismo. Si tratta di un maschile violento che mette in atto possessioni di gruppo simili a quelle che i trattati di psichiatria – penso per esempio a quello scritto da Jasper – chiamano “epidemie psichiche”. Quello che impressiona è la fragilità individuale nascosta sotto queste pratiche di gruppo violente; una fragilità che negli ultimi anni è aumentata soprattutto, credo – e torniamo così al tema della nostra conversazione –, a causa della disattivazione della funzione paterna.
Con funzione paterna, naturalmente, non intendo semplicemente la presenza fisica di un maschio adulto, ma di quella che chiamerei laqualità paterna nell’educazione, qualunque sia la forma di famiglia vissuta. Penso alla capacità di dire no, di porre dei limiti, di creare un’economia mentale volta al risparmio delle energie psichiche nell’immediato in virtù di un progetto, di una preparazione di futuro, di una gratificazione differita ma più intensa e proficua. La qualità psicologica del paterno – ripeto: indipendentemente dal sesso di chi la eserciti – non coincide soltanto con ciò che è implicato da una diffusa banalizzazione del freudismo per cui il padre è l’elemento castrante – il famoso complesso di Edipo. Ricordiamoci che questo non è l’unico modo possibile di interpretare il paterno: quello di Edipo è sicuramente un mito interessante, insieme però a moltissimi altri che descrivono altre qualità e altre prerogative della funzione del padre; penso in particolare alla figura di Ettore. Se i Greci hanno fatto uso di molti miti, lo possiamo fare anche noi: non pretendiamo di derivare da un solo racconto l’unico modo possibile dell’essere paterno. Si può, per esempio, essere padri spiegando le ragioni del no, motivando la necessità della rinuncia in vista di un progetto e di una gratificazione maggiore. L’interdizione non deve essere necessariamente implicita, sadica, castrante; può essere spiegata e diventare ragionevole.
Nel Gesto di Ettore lei sostiene che anche la psicanalisi ha contribuito, nel suo settore specifico, all’eclissi della funzione paterna. La linea che da Freud arriva a Melanie Klein – la scuola analitica anglosassone – privilegia lo studio dei primi anni di vita del bambino, dunque il rapporto madre/figlio, l’elemento sensibile e corporeo dell’identità. In questa prospettiva l’elemento paterno, sociale, culturale passa decisamente in secondo piano.
Essendomi formato a Zurigo, per me è stato naturale dare la massima importanza all’elemento culturale e allo studio del mito come chiave d’accesso all’inconscio collettivo. Dal mio punto di vista di junghiano, certe importanti elaborazioni post-freudiane, in particolare della Klein e di Anna Freud non solo sono state particolarmente importanti come integrazioni alle mancanze della mia scuola analitica, ma costituiscono anche delle applicazioni intelligenti e corrette delle analisi di Freud, rivolte però a fasi sempre più precoci della vita umana. Naturalmente quello che avviene nella prima settimana, nel primo mese o nel primo anno di vita ha molta più importanza nella formazione di una persona di quanto possa accaderle al ventesimo anno; tuttavia questa impostazione è andata in una direzione che accomuna moltissime discipline e realtà sociali, nonché politiche: la concentrazione sull’individuo a discapito del sociale, cui corrisponde l’egemonia dell’aspetto biologico su quello culturale.
Più mi muovo verso l’origine, più il peso del culturale diminuisce: nei primi giorni di vita il bambino non è altro che il cucciolo di una specie animale molto differenziata. Gli puoi parlare fin che vuoi, lui sente la voce, ma non comprende i concetti. Non sa cos’è il mondo e dunque il contatto fisico, la soddisfazione corporea immediata è tutto; il resto è niente. È importante, naturalmente, approfondire e capire questo egoismo infantile primordiale, ma non lo si può assumere a modello generale, altrimenti ci si riduce a studiare solo ciò che è biologico e si annulla in un attimo ciò che è culturale e sociale. Certo, quest’ultimo aspetto è stato sopravvalutato negli anni Sessanta e Settanta: si pensava che cambiando la società non ci sarebbe più stata la nevrosi o la malattia mentale. Esagerazioni, ovviamente. Ma è innegabile, tuttavia, che sia indispensabile mantenere una correlazione molto stretta fra la componente biologica e quella sociale/culturale. Tutti i miei colleghi, soprattutto maschi, si sentono molto bravi quando si interessano a queste fasi primarie. Forse portando l’analisi verso forme di accoglienza materne cercano un sollievo dalla colpa del maschile.
Del resto un approccio esistenziale e culturale “materno” senza i limiti, i freni e i contenimenti della funzione paterna è altrettanto pericoloso. 
Possiamo sostenere che il materno porti con sé una soddisfazione fisica e biologica – il nutrimento – concentrata sul presente; tende ad annullare il tempo. In fondo, che cos’altro è il consumismo se non il regno del potere materno sociale come soddisfazione orale, come nutrimento e soddisfazione immediata dei bisogni, senza pensare al futuro, voglio dire alle conseguenze individuali e sociali, nonché ambientali, che questo meccanismo di soddisfazione immediata comporta?
Proviamo ora a ragionare su una possibile genealogia di quest’eclissi del padre e del ritorno a forme di maschile non paterno. Le chiederei anzitutto di commentare questa frase tratta da Il gesto di Ettore: «La storia è riuscita a limitare solo gli eccessi paterni, non gli eccessi maschili» (p. 278.)
Mi rendo conto che è una frase un po’ forte. Proverò a delineare a grandi linee un’ipotesi interpretativa storica. È probabilmente con il cristianesimo, nel suo rovesciamento del monoteismo, che possiamo trovare una prima anticipazione di quella che poi sarà la crisi della funzione paterna. Con il cristianesimo il centro diventa il figlio che, bene inteso, parla in nome del padre: ma allo stesso tempo anticipa l’odierna “società dei figli” a relazione orizzontale. Certo, è un’anticipazione che apre molti problemi interpretativi; tuttavia è innegabile che con il cristianesimo la figura del figlio diventi centrale. Se poi con un salto arriviamo alle rivoluzioni moderne, quella francese e quella americana, troviamo in entrambe un attacco formidabile alle forme tradizionali d’autorità che però prepara anche le condizioni sociali e culturali del nostro presente, crisi della funzione paterna inclusa. Ciò che è nuovo nelle rivoluzioni moderne è infatti l’attacco complessivo alle strutture generali della società: una progressiva consapevolezza delle forme di potere interne alla stessa struttura familiare cresce insieme alla coscienza delle forme verticali del potere politico e sociale. Da qui si origina un lento, ma costante, sgretolarsi del patriarcato. Vengono giustamente criticati i suoi eccessi, ma con questi è il terreno generale del paterno che inizia a naufragare – non è forse un caso che il primo Edipo della cultura moderna sia stato scritto da Voltaire. Nello stesso periodo, la maledizione del padre verso il figlio diventa un tema iconografico abbastanza comune nella pittura; siamo di fronte all’esatto ribaltamento della benedizione biblica del patriarca.
La crisi del padre è un fenomeno molto complesso, di lungo periodo. Forse il momento dove la sua funzione è stata interpretata nel modo più interessante resta ancora quello della società greca. Non bisogna tuttavia confondere padre e patriarcato. In questa storia di lungo periodo viene attaccato il padre per gli eccessi del patriarcato; ma insieme agli abusi del secondo si è finito per sgretolare i valori del primo: la stabilità, la capacità di formare ed educare, la volontà di progettare il futuro… Si crea così una società culturalmente dominata dai giovani, fondata sull’apprendimento orizzontale che riapre, inevitabilmente, uno spazio di competizione maschile senza una controforza capace di contenerla dando valore al tempo. Come abbiamo già visto, è il padre che preserva e istruisce alla continuità nel tempo: insegna l’economia delle energie in virtù di una gratificazione differita più alta. Va ripetuto: i no paterni veri non sono semplicemente castranti, ma formativi. Per essere padre il maschio ha bisogno di questa continuità, la deve ipotizzare, la deve conoscere, la deve costruire. Deve sapersi muovere nel tempo. Se vogliamo seguire gli ultimi atti di questa storia, si può dire che la rivoluzione industriale prima e la società dei consumi poi danno il vero e proprio colpo di grazia alla dimensione paterna. La società dei consumi, in particolare, può essere letta, credo, come metafora di un rapporto sociale: quello di dipendenza materno, fatto di soddisfazione immediata e appagamento smisurato dei bisogni.
In mezzo sta l’epoca dei padri terribili: l’età dei fascismi e delle dittature. I vari padri terribili del primo Novecento, lungi dal rappresentare un ritorno del patriarcato antico e del potere culturale del paterno, rappresentano storicamente l’apertura al maschile distruttivo. Si pensi anche solo alle guerre, ai milioni di nuclei familiari rimasti senza padre; ma soprattutto, se si pensa alla Prima Guerra Mondiale, bisogna prestare attenzione ai reduci di guerra. I reduci riabilitano l’orda primordiale dei fratelli, vale a dire la banda di maschi orizzontale non paterna: di qui in Italia verrà il fascismo, per esempio. È falsa, dunque, la percezione che in quegli anni si ritorni a forme culturali patriarcali; i fascismi sono invece un fenomeno della modernità dispiegata. Con i fascismi il padre scompare. I dittatori sono maschi alfa, aggressivi e distruttivi: tolgono la vita, scatenano guerre.
Dietro queste nuove figure di falsi padri si potrebbe nascondere dunque l’archetipo di Crono, il padre divoratore dei propri figli?
Ne sono convinto. Sono padri che uccidono i figli – pensiamo alla celebre frase di Mussolini: «ho bisogno solo di qualche migliaia di morti per sedermi al tavolo della pace». E questa, per altro, era una pura illusione, tanto quanto la strategia hitleriana del Blitzkrieg: un’altra illusione paranoica. Essendo paranoico, infatti, Hitler attacca tutti preparando la propria stessa sconfitta. Ormai mi sono convinto che nella Seconda Guerra Mondiale la vittoria su quel male che è stato il nazismo derivi molto più dalla sua paranoica autodistruttività che dall’azione degli alleati. Comunque è fuori discussione che entrambi, Mussolini e Hitler, siano figure divoratrici, non paterne. Passati loro, tuttavia, non abbiamo certo un ritorno ad una società più equilibrata. Quello a cui assistiamo è lo scatenamento senza freni del consumismo, fatto di spreco, distruzione dell’habitat, lusso competitivo e consumi d’ostentazione. Si pensi che lusso deriva daluxus, ed ha la stessa radice, per esempio, di lussazione: una cosa andata fuori posto. L’etimologia segnala la patologia…
Un elemento su cui potremmo tornare è il modo attraverso cui la rivoluzione industriale, quindi le macchine e la conoscenza sociale che incorporano, ha agito direttamente sull’eclissi della funzione paterna.
Per capire quello che è successo basta fare un esempio. Nei romanzi popolari scritti nella seconda metà dell’Ottocento appare con una certa insistenza una figura nuova: quella del padre miserabile, povero, senza lavoro e malato. Magari anche alcolizzato, visto che l’alcolismo diventerà, non a caso, un piaga sociale di massa proprio in quegli anni. La rivoluzione industriale si abbatte sulla struttura sociale, la disintegra e la riorganizza. Quello che questi romanzi mostrano è quanto l’impatto sulla dimensione paterna sia fortissimo e devastante. Padri maledetti o padri che maledicono i figli; e poi padri degeneri, privi d’autorità all’interno della famiglia e all’esterno, nella società. È una vera novità storica. Come è ovvio, inizialmente, questa trasformazione coinvolge anzitutto i ceti popolari; ma la disgregazione della dimensione paterna raggiunge, abbastanza velocemente, tutte le classi sociali.
 È molto interessante la simmetria che lei propone fra progressiva disattivazione della funzione paterna e scomparsa dei rituali. Questi ultimi hanno sempre avuto, sul versante maschile, lo scopo di introdurre l’adolescente ad un’età qualitativamente diversa della vita: l’età della responsabilità paterna. Tutto questo scompare con il consumismo che blocca l’adolescenza impedendone la trasformazione.

È un problema che ho trattato inizialmente in un volume sulla tossicodipendenza, Nascere non basta [5] e poi nella parte finale di Il gesto di Ettore. È un problema che mi insegue da tempo. Avendo lavorato per alcuni anni in una clinica per tossicodipendenti, ho avuto modo di riflettere su questa condizione. L’ho studiata collegandola, oltre ad altri fattori, agli effetti del consumismo. Il consumismo indebolisce la capacità di autodisciplinarsi proprio perché introduce in una dimensione temporale che conosce solo il presente dell’immediato soddisfacimento dei bisogni. È un rituale sociale inconscio dominato dall’impazienza. E questo orizzonte, come ormai sappiamo, è quello contro cui lotta la dimensione paterna.
Il cerchio in qualche modo si chiude. Se scompare l’una, l’altra diventa dominante. Ma l’esigenza di trasformarsi e di crescere, che non può essere annullata, cercherà allora altre strade. Nei casi più sfortunati, rimarrà incastrata nei falsi rituali mortiferi propri dell’uso delle droghe. I rituali antichi, che accompagnavano la crescita, volevano spingere il giovane verso l’autonomia. L’uso temporaneo e guidato di sostanze stupefacenti faceva parte di un’iniziazione: era un uso temporaneo e guidato, questo va ripetuto. Lo scopo poteva essere l’attraversamento di forme di morte apparente o di stati modificati di coscienza, come ampliamento della consapevolezza del singolo legato ai limiti e ai pericoli dell’esperienza. Lo scopo era comunque quello di rendere il giovane adulto, autonomo, di introdurlo in un’età diversa della vita. Quello a cui assistiamo oggi è invece molto diverso: i rituali legati all’uso di droghe sono impliciti, orizzontali, quindi non controllabili. Per questo, invece di far crescere, bloccano il giovane nella ripetizione di una dimensione terribilmente distruttiva: la dipendenza.
strong>Quale può dunque essere il destino dei figli in un’età dominata dall’eclissi della funzione paterna?
Una società dominata dalla scomparsa del padre lascia gli adolescenti in una condizione molto difficile, non c’è dubbio: pensiamo a Pinocchio, alla sindrome di Lucignolo. Lasciamo perdere la fine del racconto, dove, non si capisce bene perché, il burattino di legno si trasforma in un bravo ragazzo: è la parte delle peripezie quella importante. Bene, queste prove non portano da nessuna parte. Lucignolo, che è il mentore di Pinocchio, non lo può far crescere. Non è un caso che, in assenza di figure paterne, l’unica possibilità di crescita sia guidata dalla fata, vale a dire da un femminile caricaturale che conosce il senso di colpa come unica strategia di disciplina.
Questo racconto mi sembra esprima molto bene le aporie in cui siamo costretti. I giovani devono trovare un’alternativa a Lucignolo. Per ora, l’unica soluzione che mi sembra di poter indicare, da terapeuta, è proprio l’analisi psicanalitica. Il senso delle soglie della vita che una volta veniva spiegato e garantito dal passaggio dei rituali, forse oggi può essere recuperato – anche se è un’operazione artificiale – per via psicologica, come ricostruzione ritualizzata della vita personale. Con Jung, parlerei di individuazione come possibilità di crescita. Ognuno deve poter comprendere la storia di cui è effetto ed essere capace di trasformarla. Solo a questo punto potrà scegliere da sé i rituali più adeguati ad esprimere il significato che potrà avere per lui la vita.

di Daniele Balicco,  Allegoria, 14 giugno 2011 (pubblicata su leparoleelecose.it 12 maggio 2012)

*l’intervista è apparsa su Allegoria, ed è datata 14 giugno 2011

[1] R. De Monticelli, La questione morale, Raffaello Cortina, Milano 2010, p.65
[2] G. Bottiroli, Non sorvegliati e impuniti. Sulla funzione sociale dell’indisciplina, in Forme contemporanee del totalitarismo, a cura di M. Recalcati, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
[3] Ivi.
[4] M.Recalcati, Il miracolo della forma: per un’estetica psicanalitica, Bruno Mondadori, Milano 2007.

[5] L. Zoja, Nascere non basta. Iniziazione e tossicodipendenza, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003.

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